competenze legali

Il contratto a tempo determinato nella previsione normativa del “Decreto Dignità”

Il c.d. "Decreto Dignità" limita l’utilizzabilità del contratto a termine in contrasto con le modifiche che vi erano state apportate negli anni passati, e che avevano avuto il fine di renderlo uno strumento capace di garantire una maggiore flessibilità per le aziende nella gestione del personale.
La ricerca di uno strumento più agile aveva portato ad una graduale modifica della disciplina, con l’obiettivo, certamente raggiunto, di una maggiore semplificazione.


Sono numerosissime e anche contraddittorie le interpretazioni sui diversi aspetti del contratto a termine: la forma, la durata, il rinnovo, la proroga, la "pausa" tra un contratto e l'altro, l'ultrattività, il preavviso ecc…. sono stati tutti oggetto di analisi e spesso motivo di contenzioso, oltre alle numerose interpretazioni della causa del contratto a tempo determinato che hanno per diversi anni riempito i ruoli dei Giudici del lavoro.

Il contratto a termine, è stato in questi anni indubbiamente un contratto efficace e molto valido ai fini di un incremento dell'occupazione, in quanto ha consentito di adeguarsi alle peculiarità delle imprese che non hanno necessità permanenti di personale o che vivono di flussi finanziari poco stabili; vero è d’altra parte che l’utilizzo smodato porta con se l’idea di precariato che sta che sta giustificando l'ennesimo ritocco a questa normativa; tuttavia il risultato di ciò, è che si sta generando una nuova e profonda confusione interpretativa dello strumento contrattuale.
La legge 9 agosto 2018, n. 96, di conversione del Decreto Legge 12 luglio 2018, n. 87 – c.d. Decreto Dignità – ha modificato la disciplina del contratto a termine fissata agli artt. 19 – 29 del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.


Le modifiche, in estrema sintesi, hanno riguardato la reintroduzione della causale, la durata massima del contratto ed il numero di proroghe, oltre ad alcune correzioni riguardanti il termine per l'impugnazione della validità del contratto.
Allo stato una serie di dubbi accompagnano la riforma e tra tutti il primo è certamente quello riguardante la reintroduzione della causale del contratto.


Come già accennato precedentemente la causale è stata più volte oggetto di critica e di modifica.
Il D.lgs. 368/2001 prevedeva l'obbligo di causale per il contratto a termine e l'apposizione del termine doveva essere motivata da ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive; inizialmente eliminata per i contratti di durata inferiore ai 12 mesi, la causa è poi del tutto sparita con il D.lgs. 81/2015.
L'eliminazione della causale dal contratto a termine ha avuto obiettivamente numerosi effetti positivi rendendo il contratto a termine più appetibile, in quanto strumento di massima flessibilità negoziale in mano all'imprenditore che, se usato con oculatezza, permette di poter assumere in ragione delle necessità contingenti e temporanee; o di poter programmare un progressivo inserimento in azienda del dipendente poi da consolidare con l'assunzione a tempo indeterminato.
Va aggiunto che l’eliminazione della causale ha poi contribuito in maniera sostanziale alla riduzione drastica del contenzioso sull'apposizione del termine (va detto per correttezza che spesso le vertenze venivano incardinate anche se all’origine le parti erano perfettamente d’accordo sull’utilizzo della forma contrattuale a termine…).


La modifica del Decreto Dignità reintroduce l'obbligo di causale quando il contratto a termine supera i 12 mesi, sia tramite proroghe che rinnovi e dovranno sussistere le seguenti ragioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività; b) esigenze connesse a incrementi temporanei e non programmati, dell'attività ordinaria; c) esigenze sostitutive.
Di fatto, pur cambiando il nome delle ragioni giustificatrici del contratto a termine, si ricalcano di fatto fedelmente le precedenti: punto a) le note ragioni tecniche ed organizzative; punto b) ragioni di tipo produttivo; punto c) ragioni sostitutive…come nella vecchia previsione normativa.
Forse alla luce di ciò non sbaglia chi sostiene che il decreto in oggetto così formulato costituisca più un passo indietro che non in avanti anche perché, l'incertezza interpretativa sulla concetto di esigenza temporanea ed oggettiva è evidente.
Altro problema riguardala la riduzione della durata del contratto.


La precedente normativa prevedeva che fosse consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato; fatta salva una diversa disciplina introdotta dalla contrattazione collettiva, la sommatoria di più contratti tra le medesime parti, aventi per oggetto mansioni equivalenti, non può superare i 36 mesi di effettiva prestazione, pena la conversione in contratto a tempo indeterminato.


Il lavoratore maturava il diritto alla conversione del rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato sin dalla prima stipula.
Con il D.L. 87/2018 invece, il contratto a termine avrà una durata complessiva massima di 24 mesi e non più di 36. Il lavoratore potrà essere assunto senza vincoli causali per un massimo di 12 mesi, durante i quali anche eventuali proroghe non richiedono giustificazioni di sorta. Il contratto potrà avere, anche per effetto di proroga, una durata superiore (purché non eccedente i 24 mesi) solo in presenza di almeno una delle condizioni (causali) tassativamente indicate: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria. La causale deve sempre essere indicata in caso di rinnovo, anche se non si eccede il limite dei 12 mesi. Il numero delle possibili proroghe è ridotto da 5 a 4 e la sanzione della conversione opera sin dalla quinta proroga. il contratto a termine vede ridursi la sua durata massima in 24 mesi di cui i primi 12 mesi senza causale ed i successivi 12 mesi con la previsione della causale.


Qualora le parti volessero comunque prolungare il rapporto a termine, altri 12 mesi sono accordabili esclusivamente in sede di Ispettorato del Lavoro, con accordo sindacale. Il rischio è che la riduzione della durata massima non si trasformerà in uno stimolo verso i contratti a tempo indeterminato, comportando viceversa come effetto la chiusura di molti rapporti di lavoro in scadenza nei limiti e con le complicazioni del regime transitorio che costituisce un’ ulteriore criticità del decreto.

La legge di conversione, infatti, rinvia al 1° novembre la decorrenza della nuova disciplina, ma non crea un automatismo semplice da seguire lasciando spazio a più di un lato oscuro soprattutto per quel che riguarda il tema delle proroghe per i contratti sottoscritti dopo il 14 luglio 2018, ma prima o dopo rispetto al giorno 11 di luglio, data di entrata in vigore della legge di conversione che ha posticipato la vigenza della nuova disciplina al 1° novembre.
In particolare nelle legge di conversione è previsto un periodo transitorio per i contratti stipulati dal 14 luglio 2018 e a proroghe e rinnovi in corso alla medesima data. Le novità di cui all’art. 1 comma 1 D.L. 87/2018 si applicano ai contratti sottoscritti successivamente al 14 luglio 2018, nonché alle proroghe e ai rinnovi successivi al 31 ottobre 2018.
Fino a tale data i contratti sottoscritti prima del 14 luglio 2018 saranno soggetti alle vecchie regole in materia di proroghe e rinnovi.

Nessun dubbio che i contratti in scadenza al 13 luglio siano esenti da causale o da problemi riguardanti il numero di proroghe, che restano stabilmente le 5 previste dal Jobs Act; per i nuovi contratti sottoscritti dopo tale data si aprono una serie di scenari differenziati, destinati a semplificarsi solo dopo il 1° novembre.
Ogni proroga è oggi subordinata alle vecchie causali, e quindi assai rischiosa perché fonte quasi certa di contenzioso. Uno degli effetti del Jobs Act era stato la riduzione dei processi avanti il giudice del lavoro. Il nuovo approccio sarà probabilmente dannoso per l'occupazione e per le imprese.
La regolamentazione dello strumento del contratto a tempo determinato varia con il variare dell’andamento del mercato; quando il mercato è in difficoltà sarebbe opportuno allentare i vincoli alla stipulazione di contratti a termine e forse in un momento come quello attuale, più che porre vincoli troppo stretti al contratto a termine, sarebbe stato opportuno lasciargli una relativa flessibilità.